sabato 14 luglio 2007

Cristiano Ramunno

Nato a Marino (Roma) il 20/12/1981, Vive e lavora a Roma.

Fin da giovane età si dedica alla musica e alla fotografia, compie gli studi medio-superiori presso il IV Liceo Artistico di Roma e intanto suona in diverse band locali di matrice Alternative Rock. Successivamente (ancor prima di terminare gli studi all’Accademia di Belle Arti di Roma) è scenografo per diversi spettacoli teatrali. Nel 2003 aderisce al gruppo “Malerischeren” con cui espone le sue opere pittoriche e fotografiche in diverse mostre in vari centri sociali nella capitale. Nel 2004 co-fonda il gruppo “Smoker Mu” in cui si occupa di musica sperimentale, Performance, Sound Art, musica per teatro e si esibisce in diverse occasioni di rilievo tra cui la Performance “Passaggi di stato… Morte di un baco da seta” tenutasi al MLAC (Museo Laboratorio di Arte Contemporanea) nel Settembre 2005.
Dal 2004 apre la sua ricerca alle sperimentazioni di elaborazione digitale delle immagini fotografiche e comincia a lavorare alle sue installazioni foto-sonore.
Nel 2006 co-fonda il gruppo “Le Momo Electronique”.




Cristiano Ramunno

Doppia visione
- incroci di sensi -


Installazione foto-sonora







Questa installazione foto-sonora, non è un lavoro volto ad indagare esclusivamente quelle facoltà percettive che l’uomo adopera per dare una fisionomia (e di conseguenza un nome) alle cose del mondo. Intende piuttosto, partendo dalla riflessione circa il percepire, porsi come tramite attraverso cui accedere ad un più profondo strato della conoscenza audio-visiva: varcare le soglie del quotidiano inteso come ordinario, nel tentativo di porre l’avventore al cospetto di un’esperienza multisensoriale, dove quanto sembrerebbe oggettivamente riconosciuto, viene riportato ad un grado tale da mettere in discussione la certezza d’attendibilità con cui l’uomo contemporaneo “cataloga” le cose, le circostanze, le situazioni.
Ramunno, giovane polistrumentista e fotografo sperimentale, ci avvolge in un lembo di “terra di confine” tra il mondo a cui siamo abituati ed i mondi possibili nascosti ai nostri sensi, che qui, vedono svelarsi, nella metafora dell’incrocio, lo stato di convivenza di diversi modi possibili/impossibili di percepire, concepire e partecipare l’esperienza degli enti abitualmente celati dietro un’apparenza che non sfiora che il dorso delle cose. «Microcosmi fluttuanti» li chiama, mondi nel mondo, «nascosti dietro l’automatismo insito nei gesti più semplici e spontanei», i quali si incontrano e confrontano, catturati in un perpetuo gioco di specchi, che ci smarrisce, nel crocevia di un luogo senza orbita», de-cardinalizzato, de-nominalizzato, de-categorizzato, nel quale vanno svelandosi dinamiche altre del tempo e dello spazio. «In altre parole -continua Cristiano- si invita il fruitore ad una riflessione circa i diversi modi di percepire l’esistente, nella profonda convinzione che ogni individuo sviluppi un particolare modo di sentire – fisiologicamente e culturalmente-, il quale, è solo apparentemente riconducibile ad un unico denominatore comune»: le medesime situazioni sono vissute, perciò percepite e concepite in milioni di modi diversi, questi percorsi interni, mancando una reale apertura di ognuno alle più diverse forme di diversità, «ci rendono alieni a chi e a quanto ci circonda». Fondamentali risultano essere, a questo punto, le sue riflessioni circa la percezione dello spazio, della luce, dei corpi e del loro volume e di conseguenza il dubbio fondamentale riguardo la presunta corrispondenza di parola e cosa, sviluppate formalmente nel tentativo di porre in emersione quale distanza intercorra realmente, «tra le immagini sulle quali sono soliti riposare i nostri sensi» e la verità delle cose. Fondamentale è l’apporto del sonoro il quale contribuisce notevolmente nel formarsi di una situazione dimensionale “autonoma” nella sua alterità: «ho integrato l’installazione con una parte dedicata esclusivamente alle reazioni, che la ricezione sonora scaturisce (in relazione alla visione) nel nostro modo di determinare gli spazi, influendo non solo sull’udito, ma bensì sull’equilibrio, come pure sull’orientamento, delineando uno spazio che, tende a destabilizzare, privando volontariamente lo spettatore dei riferimenti di cui si avvale nella vita di tutti i giorni.» Si riscontra in questo sonoro, un’indagine a partire dalla dimensione, per così dire “casalinga” e “individuale”, mentre nel visivo emerge una situazione “pubblica “collettiva”. Ramunno realizza così una situazione “globale” in cui nella fusione di suono e immagine sono compresi i due fondamentali livelli della vita quotidiana: «Il contrasto recato dall’immagine di un luogo aperto (che trova nell’incrocio un sinonimo dell’esperienza condivisa), è giustapposto a una dimensione interna all’individuo, il quale porta con sè, un bagaglio raccolto singolarmente, che si palesa nello spettro di suoni i quali generano nuove traiettorie spazio-temporali, sottoforma di eco lontani che rimandano a mani sfregate, uno starnuto, passi dapprima lenti e poi in corsa, allo sbattere di portoni che portano con sé tutto il peso della loro fisicità, come imprinting, di segni indelebili fissati nel nostro subconscio». La composizione, studiata per essere mandata in loop nell’ambiente, non si struttura su di una armatura definita, «poiché non esiste metrica idonea a regolare l’imprevedibile andamento del comportamento umano» (sottolinea ancora l’autore), l’unico reale elemento di coesione, che tiene uniti la serie di accadimenti disseminati quasi “puntillisticamente”, è un tappeto di fondo ricavato da un particolare lavoro di elaborazioni digitali svolto su voci estrapolate dal normale conversare d’individui nell’ambiente a loro più familiare; ma del modo in cui questi suoni, che tutti crediamo di conoscere, sono “incontrati” normalmente non resta che una remota traccia.

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